giovedì 26 febbraio 2009

Newsletter - n. 33

E’ singolare che il neo segretario del Partito Democratico Dario Franceschini abbia sentito la necessità di inaugurare la sua nomina a leader del partito recandosi nel Castello Estense della sua città natale, Ferrara, per giurare sulla Costituzione, dopo aver scelto la linea dell’autodeterminazione a proposito della legge sul fine vita, in discussione al Senato, nel discorso in cui accettava la nomina al posto di Walter Veltroni alla guida del partito.
Franceschini viene dalla storia del cattolicesimo democratico italiano, dalla Democrazia Cristiana. La stessa storia che ha spinto il Presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a essere l’unico oratore nella manifestazione dello stesso Pd in difesa della Costituzione pochi giorni prima delle dimissioni di Veltroni, oppure il senatore a vita Giulio Andreotti a dare ragione al Presidente Napolitano nella polemica con Silvio Berlusconi a proposito del decreto che avrebbe potuto salvare la vita a Eluana Englaro, oppure ancora il monaco Giuseppe Dossetti a uscire dal convento nel 1994 per fondare i comitati in difesa della Costituzione che, anche allora, era “minacciata” dall’attuale Presidente del Consiglio.
E’ singolare, ma è così. A Franceschini non viene in mente il rischio della legalizzazione dell’eutanasia, la crisi della famiglia che neppure il governo di centro-destra riesce a riportare al centro dell’attenzione legislativa (e per questo potrebbe anche essere criticato, perché avrebbe potuto fare di più). La sua prima preoccupazione non sono i “princìpi non negoziabili” su cui si dovrebbe fondare la vita della comunità, quei princìpi, vita, famiglia e libertà di educazione, su cui papa Benedetto XVI e il magistero della Chiesa insistono da decenni. I suoi valori sono l’antifascismo, la laicità e la Costituzione.

Il problema non è la Costituzione, ma la sua divinizzazione. Le affermazioni del Presidente del Consiglio a suo proposito sono ovvietà: è nata in un clima culturale completamente diverso dall’attuale, prima della caduta del Muro di Berlino quando il mondo era diviso in campi ideologici contrapposti. Il 40% dei costituenti (i socialcomunisti) guardavano all’Unione Sovietica come a un modello di riferimento e i partiti di allora sono tutti scomparsi. Queste non sono opinioni, ma dati di fatto. Sarebbe una bestemmia pensare di cambiare la Carta costituzionale, anche nella prima parte, quella dei princìpi, in un Paese diventato molto diverso nel corso di oltre cinquant’anni? Eppure nessuno ha chiesto di cambiarla. E’ bastata una frase tanto ovvia, quanto occasionale, per scatenare un putiferio mediatico.

Sull’antifascismo siamo tutti d’accordo. E’ come il prezzemolo che, dicono, non guasti mai. Salvo attribuire all’attuale maggioranza “tentazioni” fasciste, cosa che ogni tanto “scappa” dalla bocca di qualcuno. Ma non ci crede nessuno.

Più complesso e serio è il discorso sulla laicità. Laicità rispetto a che cosa? All’ingerenza della Chiesa. Anche questa è una cosa singolare. Il neosegretario “cattolico” (ma lui non gradirebbe, credo, questa qualificazione) sente il bisogno di affermare con forza la propria laicità rispetto a una supposta ingerenza della Chiesa. Come se ci volesse dire che da questa parte viene il pericolo per la libertà e l’autonomia delle istituzioni.

Singolare, davvero. O forse no. Forse è semplicemente una “vecchia” storia che si ripete. La “vecchia” storia di quando i Comitati civici vennero silenziati dalla Dc negli anni Cinquanta del secolo scorso, dei cattolici democratici a favore della legge sul divorzio nel referendum del 1974, delle firme democristiane alla legge sull’aborto nel 1978, dei “cattolici adulti” che andarono a votare in occasione del referendum contro la legge 40 sulla fecondazione assistita nel 2005.

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