Relativismo e verità in un quartiere multietnico di Milano
Care amiche, cari amici,
due fatti di cronaca. Il primo ci ricorda che in Olanda il governo chiede ai neo-immigrati di seguire un corso di lingua e di “dare un’occhiata a un film dove, fra l’altro, si assiste a un bacio fra omosessuali e si vede la panoramica di una spiaggia per nudisti”: lo ricordava Luigi Offeddu sul Corriere della Sera del 15 febbraio. Il secondo è una dichiarazione del ministro Maurizio Sacconi sui fatti di Milano, dove un immigrato egiziano di 20 anni è stato assassinato da immigrati sudamericani ubriachi in un quartiere della periferia dove le diverse comunità vivono in pericoloso contatto: il ministro ha detto: “L’identità è la premessa per il vero incontro. E’ nell’indifferenza che si genera il conflitto. E’ la parete bianca senza il crocifisso, che fa il conflitto”.
Due modi diversi, anzi opposti, di rispondere al problema immenso dell’immigrazione. Due modi che riflettono due diverse concezioni dell’uomo e della civiltà, la prima fondata sulla integrazione all’interno del relativismo, l’altra sull’integrazione all’interno di una cultura e di una civiltà radicate nella storia dell’Occidente: Atene, Gerusalemme, Roma.
I due fatti richiamano l’attenzione su due recenti documenti, la Nota dottrinale dell’arcivescovo di Bologna card. Carlo Caffarra su Matrimonio e unioni omosessuali e il discorso alla Pontificia Accademia per la Vita del Papa del 13 febbraio. Perché questo legame?
Perché l’integrazione nel relativismo è fallita e fallisce. Provate a girare in un quartiere multietnico, con le comunità divise e contrapposte che non hanno nulla in comune e vogliono dividersi il controllo o l’egemonia su quel poco (o tanto) che c’è e che spesso è frutto di traffici illegali. Ogni comunità fa riferimento a un proprio codice di valori che esclude le altre, oppure fa riferimento soltanto alla propria forza per imporsi e imporre. Il sistema del relativismo prevede quartieri, oggi, e domani città tipo “arcobaleno”; già questo lo si può osservare girando in tram per Milano semplicemente guardando il mutare delle lingue delle scritte dei negozi, passando da un quartiere all’altro. Lo schema dell’integrazione nel relativismo prevede che non ci siano principi condivisi, pochi ma comuni alle diverse culture delle comunità che convivono l’una a fianco dell’altra. L’unico dogma è che non ci devono essere verità assolute. E allora la vita non è sacra, la famiglia non è una, l’onestà vale solo (forse) all’interno della comunità di appartenenza, come avviene per la malavita.
Oppure, al contrario, abbiamo qualcosa da offrire a chi viene nella nostra civiltà. Abbiamo il crocifisso, come ha detto il ministro, cioè abbiamo la certezza che “Dio ama ciascun essere umano in modo unico e profondo”, fino a sacrificare Se stesso, come ha ricordato il Papa il 13 febbraio. E dunque esistono valori condivisi, una legge morale naturale che precede tutte le culture.
Certo, occorre essere realisti. Non basta educare all’esistenza di queste verità elementari e fondamentali. Bisogna far rispettare con la forza una legalità senza la quale non si insegna nulla, perché non ci sono le condizioni materiali per farlo. Purtroppo spesso tanti intellettuali, anche sacerdoti, usano dire che non ci vogliono poliziotti ma educatori, contrapponendo secondo un vecchio vizio dialettico due necessità, la sicurezza e l’educazione. Ci vogliono l’una e l’altra.
Soprattutto bisogna avere il coraggio di scegliere e di sfidare l’impopolarità, affermando che la verità sull’uomo esiste, si trova nella sua natura ed è l’unico possibile fondamento di relazioni umane rispettose della dignità di ogni essere umano. Questa verità oggi suscita ilarità o reazioni rabbiose quando viene pronunciata, probabilmente perché, se accolta, costringerebbe tanti a cambiare vita, a rinnegare molto del proprio passato, come molti di noi contemporanei hanno già fatto o stanno pensando di fare. Ma è l’unica strada lungo la quale si può pervenire a una vera convivenza civile: per questo il card. Caffarra, presentando la sua Nota dottrinale contro l’equiparazione del matrimonio alle unioni omosessuali, ha voluto rivolgersi anche ai non credenti, a chi vuole fare uso, “senza nessun pregiudizio, della propria ragione”.
Marco Invernizzi
Care amiche, cari amici,
due fatti di cronaca. Il primo ci ricorda che in Olanda il governo chiede ai neo-immigrati di seguire un corso di lingua e di “dare un’occhiata a un film dove, fra l’altro, si assiste a un bacio fra omosessuali e si vede la panoramica di una spiaggia per nudisti”: lo ricordava Luigi Offeddu sul Corriere della Sera del 15 febbraio. Il secondo è una dichiarazione del ministro Maurizio Sacconi sui fatti di Milano, dove un immigrato egiziano di 20 anni è stato assassinato da immigrati sudamericani ubriachi in un quartiere della periferia dove le diverse comunità vivono in pericoloso contatto: il ministro ha detto: “L’identità è la premessa per il vero incontro. E’ nell’indifferenza che si genera il conflitto. E’ la parete bianca senza il crocifisso, che fa il conflitto”.
Due modi diversi, anzi opposti, di rispondere al problema immenso dell’immigrazione. Due modi che riflettono due diverse concezioni dell’uomo e della civiltà, la prima fondata sulla integrazione all’interno del relativismo, l’altra sull’integrazione all’interno di una cultura e di una civiltà radicate nella storia dell’Occidente: Atene, Gerusalemme, Roma.
I due fatti richiamano l’attenzione su due recenti documenti, la Nota dottrinale dell’arcivescovo di Bologna card. Carlo Caffarra su Matrimonio e unioni omosessuali e il discorso alla Pontificia Accademia per la Vita del Papa del 13 febbraio. Perché questo legame?
Perché l’integrazione nel relativismo è fallita e fallisce. Provate a girare in un quartiere multietnico, con le comunità divise e contrapposte che non hanno nulla in comune e vogliono dividersi il controllo o l’egemonia su quel poco (o tanto) che c’è e che spesso è frutto di traffici illegali. Ogni comunità fa riferimento a un proprio codice di valori che esclude le altre, oppure fa riferimento soltanto alla propria forza per imporsi e imporre. Il sistema del relativismo prevede quartieri, oggi, e domani città tipo “arcobaleno”; già questo lo si può osservare girando in tram per Milano semplicemente guardando il mutare delle lingue delle scritte dei negozi, passando da un quartiere all’altro. Lo schema dell’integrazione nel relativismo prevede che non ci siano principi condivisi, pochi ma comuni alle diverse culture delle comunità che convivono l’una a fianco dell’altra. L’unico dogma è che non ci devono essere verità assolute. E allora la vita non è sacra, la famiglia non è una, l’onestà vale solo (forse) all’interno della comunità di appartenenza, come avviene per la malavita.
Oppure, al contrario, abbiamo qualcosa da offrire a chi viene nella nostra civiltà. Abbiamo il crocifisso, come ha detto il ministro, cioè abbiamo la certezza che “Dio ama ciascun essere umano in modo unico e profondo”, fino a sacrificare Se stesso, come ha ricordato il Papa il 13 febbraio. E dunque esistono valori condivisi, una legge morale naturale che precede tutte le culture.
Certo, occorre essere realisti. Non basta educare all’esistenza di queste verità elementari e fondamentali. Bisogna far rispettare con la forza una legalità senza la quale non si insegna nulla, perché non ci sono le condizioni materiali per farlo. Purtroppo spesso tanti intellettuali, anche sacerdoti, usano dire che non ci vogliono poliziotti ma educatori, contrapponendo secondo un vecchio vizio dialettico due necessità, la sicurezza e l’educazione. Ci vogliono l’una e l’altra.
Soprattutto bisogna avere il coraggio di scegliere e di sfidare l’impopolarità, affermando che la verità sull’uomo esiste, si trova nella sua natura ed è l’unico possibile fondamento di relazioni umane rispettose della dignità di ogni essere umano. Questa verità oggi suscita ilarità o reazioni rabbiose quando viene pronunciata, probabilmente perché, se accolta, costringerebbe tanti a cambiare vita, a rinnegare molto del proprio passato, come molti di noi contemporanei hanno già fatto o stanno pensando di fare. Ma è l’unica strada lungo la quale si può pervenire a una vera convivenza civile: per questo il card. Caffarra, presentando la sua Nota dottrinale contro l’equiparazione del matrimonio alle unioni omosessuali, ha voluto rivolgersi anche ai non credenti, a chi vuole fare uso, “senza nessun pregiudizio, della propria ragione”.
Marco Invernizzi